Crespi Angelo



La forza degli dei e degli eroi, ovvero la resistenza del mito

La forza degli dei e degli eroi, ovvero la resistenza del mito

Prima di tutto dovremo interrogarci sull’essenza del mito, poiché è nel mito che si radica il lavoro di Ciro Palumbo, lungi da essere una semplice e anacronistica ripetizione di cliché classici. Il mythos, la parola dell’arte, esprime la verità delle cose, contrariamente al logos, la parola della scienza, che esprime solo la validità di una cosa. Nella modernità, per motivi oscuri (e diabolici), si è persa questa distinzione, attribuendo al logos la forza della verità e della oggettività, e relegando il mythos nelle sfere del soggettivo o dell’inconscio. In sostanza ha prevalso il riduzionismo scientista, cioè l’idea che la realtà può essere capita solo se ridotta al misurabile e al numerabile e solo questa riduzione può esprimere la verità dell’essere. La validità del sapere scientifico, dunque, che è per sua natura puntuale, ha sostituito la verità diacronica espressa fin dagli albori della civiltà nelle forme simboliche proprie dell’arte e del mito. Il fraintendimento è facile da intuire: il frutto della riduzione scientista è una cosa verificabile, per esempio mediante esperimento, ed è vera finché resiste la prova e non interviene una nuova teoria a falsificarla, ma non è vera in assoluto. L’errore sta nel confondere la verità con la validità del metodo, ed in questo senso si comprende la demitizzazione presente nella cultura contemporanea che utilizza il mito al massimo come reperto antropologico, ma non più come affilato strumento cognitivo. Eppure, “il mito è il teatro simbolico in cui si rappresenta il destino dell’uomo e del mondo”[1], ed il simbolo per sua natura genera una conoscenza infinita e sempre nuova, poiché per natura (anche nell’etimo da σύν + βάλλω) è un ponte gettato tra una cosa che abbiamo e una cosa a cui si rimanda che non vediamo, dunque il simbolo (e il mito) non si esaurisce mai, restituendoci infinite possibilità interpretative, non è riducile a una presenza indicando sempre una mancanza. Il compito di un grande artista sarebbe dunque quello di far prevalere “la superiorità metafisica del linguaggio simbolico sul linguaggio referenziale; la superiorità cognitiva della metafora, descrivibile solo dal linguaggio della poesia (e dal linguaggio delle arti in generale) rispetto al linguaggio che denota e che oggettiva”[2]. Tutto il contrario dell’arte cosiddetta contemporanea e concettuale che, sulla scorta della scienza e dell’ideologia progressista, ha rinunciato alla bellezza come meccanismo per spiegare il mondo, per rappresentare l’eterno nel finito, il grande nel piccolo, l’universo nel frammento.

Su questo crinale opera Palumbo che ha ben chiaro la totipotenza del mito, la possibilità che da una cellula si sviluppi per emergenza e sovrabbondanza miracolosa un intero organismo, e ne sfrutta al meglio i meccanismi rappresentativi. Così i suoi dipinti, preziosi e levigati, ma non algidi tanto che un acuto osservatore come Flaminio Gualdoni ne ha sottolineato la fisicità quasi materica, in cui si assapora “il lavorio drammatico della nascita della forma tra talento e sprezzatura, in un pensare l’immagine che dice antico, ma è tutto calato nel disagio della modernità”[3]… i suoi dipinti riescono a mettere in moto un processo estetico che resta irriducibile, poiché alla compostezza del soggetto, di cui si riconoscono i modelli, fa da contraltare l’inquietudine della composizione, costruita ad arte con forti détournement per ingannare l’occhio e tradire la mente; i suoi dipinti tra rimandi e citazioni (ovviamente della Metafisica e di certo Surrealismo) dicono più di quanto sembra e lo nota bene Ivan Quaroni “che le sospensioni aeree e le curiose associazioni visive sono il portato di un’abilità combinatoria tutta contemporanea, capace di saturare l’immaginario classico con l’aggiunta di inedite invenzioni iconografiche e, soprattutto, con la costruzione di uno spazio che sembra scartare le regole della fisica classica, scivolando verso la dimensione quantistica. Uno spazio, appunto, che l’artista concepisce come cosmo pneumatico, universo anti-gravitazionale in cui far galleggiare i sintagmi (o forse dovremmo dire i feticci) del suo alfabeto pittorico”.[4] La sospensione del soggetto, quasi sempre una figura immersa in un paesaggio onirico, è data dal tema, spesso di natura mitologica, che ne esalta la natura archetipica allontanandolo dal presente stretto e riconducendolo nel tempo presente assoluto, una sorta di presente gnomico, di sentenziosa forza, che comprende passato e futuro. Così i lavori di Palumbo appaiono in una dimensione altra, al di là della fisica, una dimensione metafisica che costringe lo spettatore ad interrogarsi, in una sorta di cortocircuito cognitivo, in uno spaesamento perenne aumentato dalla, in apparenza, tranquillizzante dimensione trasognante dei colori. Perché qui sta un altro segreto del mito e in generale della retorica ad esso legata: la capacità di nascondere con la luce, cioè di occultare mostrando, di figliare restando vergine, di produrre per partogenesi nuovi significati senza che ci sia stata alcuna fecondazione, di cantare senza cantare, di esaltare senza esaltare.

Tra Metafisica e Surrealismo si è dunque sempre risolta la dicotomia estetica di Palumbo che è un solido pittore incardinato nella tradizione la cui tecnica e virtuosismo risplendono manifesti in tele di raffinato lirismo; egli ha trovato il baricentro tra le due avanguardie storiche a cui si appella, il punto di applicazione della forza gravitazionale, così da non pendere né da un lato né dall’altro, e questo senza timore di svelare i propri padri, certamente De Chirico e Savinio, ma anche Magritte, e risalendo all’indietro Böcklin e la statuaria classica, sempre consapevole di poter riattualizzare la congerie di materiali iconografici proprio in funzione della r-esistenza del mito. “Da secoli si parla dei miti greci come se fossero qualcosa da ritrovare, da risvegliare. In verità sono quelle favole che aspettano ancora di risvegliarci ed essere viste, come albero davanti all’occhio che si riapre”[5]: scrive Roberto Calasso volendone significare la vividezza, e d’altro canto la nostra cecità di fronte ad essi. Il mito già ai tempi dei greci sfuggì al rito, “il rito è vincolato al gesto, e i gesti sono limitati: che fare di più che bruciare, versare, inchinarsi, ungersi, gareggiare, mangiare, copulare? Ma, se le storie cominciano a rendersi indipendenti, e sviluppano nomi e relazioni, un giorno ci si accorgerà che continuano a vivere da sole”[6]. Ecco: questo “continuano a vivere da sole”, imbrogliandoci e centuplicandosi, contraddicendosi e riavvitandosi, contendendo in sé il proprio opposto, fa sì che le biforcazioni siano pressoché infinite tanto da far credere ad ogni nuovo camminatore che stia percorrendo un sentiero ancora sconosciuto, si stia inoltrando in terra inesplorata. Nell’ultima produzione, Palumbo da buon esploratore aggiunge l’elemento pop, con un’ironia quasi situazionista, spiazzante, che riattualizza nella contemporaneità Dei ed Eroi facendoli precipitare dall’Olimpo fin dentro la cultura di massa, dove Achille può ben essere scambiato per Superman e viceversa, Batman per Ares, Persefone per Wonder Woman. Questo slittamento verso il contemporaneo non si limita però nel giochino di accostare un segno ad un simbolo: lo stemma di Superman sullo scudo di Achille è una crasi perfetta, ma troppo semplice. E pur vero che la cultura pop si esprime nel segno che è un simbolo depotenziato, anzi la contemporaneità è una civiltà segnica nella quale i segni, di permesso o di divieto, di indirizzo o di suggerimento, hanno saturato il paesaggio naturale ed esistenziale. Ma per sua essenza il segno è univoco e non ha nessuna potenzialità oltre quella di indicare una data cosa, mentre il mito, come spiegato, è per sua natura totipotente, resistente al passare dei millenni. Così la forza di Palumbo sta nell’evocare alle spalle dei cosiddetti miti del pop, i miti eterni, alzando Superman a livello di Zeus, non il contrario, evidenziando il nostro eterno bisogno di spiegazioni che il mid cult non assolve, se non reificato da una cultura alta, non pop e davvero popolare. E lo fa con la precisione e l’accortezza del mitografo, ma anche con una certa dose di spregiudicatezza specie per un pittore che ha sempre usato tecniche antiche e per il quale ogni minimo cambiamento è un grande cambiamento: per esempio abbandonando in alcune tele le sfumature e i cieli azzurrati e le nuvolaglie al tramonto del surrealismo, prediligendo il colore piatto, tipico della pop art, specie per le campiture, con una inedita tavolozza di blu petrolio, viola, aranci, rosa.

La forza degli Dei e degli Eroi sta nella tensione metamorfica che il mito assegna loro; proprio nella metamorfosi continua, perché non c’è essere o nulla, semmai un perenne divenire tra uno e l’altro dei due poli.



[1] Stefano Zecchi, La Bellezza, Bollati Boringhieri, Torino 1990.

[2] Idem.

[3] Flaminio Gualdoni, in catalogo mostra “Ciro Palumbo/Homo Viator”, fondazione Piaggio, Pontedera 2016.

[4] Ivan Quaroni, in catalogo mostra “Ciro Palumbo/Isole Migranti”, Palazzo della Cultura, Catania 2017.

[5] Roberto Calasso, Le nozze di Cadmo e Armonia, Adelphi, Milano 1988.

[6] Idem.

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